Psicofarmaci si o no

La storia della psicofarmacologia moderna è cominciata a metà del secolo scorso.  La scoperta della clorpromazina, il primo antipsicotico, risale al 1950 quando il chimico francese Paul Charpentier rilevò l’azione sedativa di questo farmaco che induceva al paziente un particolare stato di “disinteresse” rispetto all’ambiente. Intuendo le potenzialità del nuovo farmaco nel trattamento delle psicosi, gli psichiatri Jean Delay e Pierre Deniker, dell’Ospedale psichiatrico Sainte-Anne di Parigi, ne ordinarono alcuni campioni e cominciarono a somministrarli ai loro pazienti psicotici.

Il successo fu immediato: la clorpromazina induceva un distacco emotivo dagli stimoli ambientali, riducendo l’ansia e l’agitazione e facendo scomparire allucinazioni e deliri. Il farmaco fu ben presto commercializzato, nel 1952 in Francia e nel 1954 negli Stati Uniti e nel giro di pochi anni fu prescritto a milioni di pazienti cambiando la vita delle persone che soffrivano di gravi disturbi mentali.

Inizia da qui l’era della psicofarmacologia e della psichiatria moderna. Fino ad allora le “cure” a disposizione erano estremamente traumatiche per il paziente, (“shock insulinico”, “elettroshock”, “lobotomia”) e non sempre efficaci, ma, al contrario pericolose. Ed è proprio per l’inefficacia dei mezzi terapeutici di allora che la psichiatria si era mantenuta, fino a quel momento, ai margini della medicina.

Tuttavia il trattamento farmacologico con gli antipsicotici di malattie mentali gravi, quali ad esempio la schizofrenia, non aveva risolto tutti i problemi. Prima di tutto il meccanismo di questi farmaci non era chiaro; in secondo luogo, il trattamento con clorpromazina, ma anche con altri neurolettici, si associava a seri effetti collaterali neurologici, anche permanenti, tanto che si parlò di “lobotomia chimica”. Queste terapie si limitavano quindi a rendere i pazienti “gestibili”.

Dal 1950 ad oggi la conoscenza dei meccanismi d’azione dei psicofarmaci si è sicuramente allargata.
Nell’ultimo decennio abbiamo assistito ad un aumento considerevole nella prescrizione, nella vendita e nell’uso di psicofarmaci. A partire dal 2000 la letteratura critica relativa all’utilizzo di psicofarmaci cresce a livello esponenziale. La scienza si divide così tra chi è a favore e chi invece è contro.

Gli psicofarmaci si identificano come diverse classi di farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale. Essi non hanno un effetto terapeutico comune in quanto vi è una vasta eterogeneità delle molecole impiegate e dei disturbi trattati. Tale eterogeneità permette di classificare gli psicofarmaci in: ANSIOLITICI, ANTIDEPRESSIVI e NEUROLETTICI (o antipsicotici). A questi si aggiunge il LITIO, gli ANTIEPILETTICI e gli IPNOTICI.

Sappiamo quali sostanze rilasciano i farmaci e dove agiscono. Ma la psichiatria moderna ha una conoscenza globale, esaustiva, completa, accurata e soprattutto scientificamente provata degli effetti sia “principali” sia “secondari” che queste sostante hanno sul cervello?
Molti ritengono che il “fondamentalismo anti-farmacologico” non è più sostenibile se si considerano le attuali conoscenze scientifiche in ambito di disturbi psichici. Tuttavia è anche vero che gli studi clinici sono sempre più spesso finanziati dalle industrie farmaceutiche. Siamo di fronte ad una vera e propria “epidemia” di disturbi psichiatrici o all’ennesimo “conflitto d’interesse” dei tempi d’oggi?
Com’è possibile che oggi gli psicofarmaci sono tra i farmaci più venduti al mondo? Davvero i disturbi mentali sono comuni come l’influenza?
Al di là della diatriba “psicofarmaci si psicofarmaci no” credo che da un lato vi è una “mentalità medica” un po’ troppo superficiale nel trattare i sintomi psicofisici e nel far rientrare “ad ogni costo” i sintomi in una categoria diagnostica, dall’altro lato vi è una “mentalità populistica” che cerca sempre la soluzione più rapida e indolore possibile a qualsiasi disagio.

Si tende a “bombardare” i sintomi psichici come se fossero sintomi influenzali. Quando mi chiedono un parere sul punto riporto sempre questo esempio: “se ad un certo punto mentre guida la sua auto si accende la spia della batteria, cosa fa? smonta il tutto per spegnere la spia oppure si reca dal meccanico per cambiare la batteria?”.
Se “spengo” i sintomi, assumendo lo psicofarmaco, “nascondo” i segnali che il corpo sta inviando: “qualcosa non sta andando per il verso giusto, ci sono delle cose che non comprendo della mia vita, sono spaventato ma non so realmente di cosa, mi sento in pericolo o sento che qualcosa a me caro sia in pericolo ecc.”

I farmaci perciò agiscono sul sintomo del problema, mirano alla remissione del sintomo stesso, ma non agiscono sulle cause e sulle vere basi mentali interne. Non bisogna demonizzare il farmaco, ma credo fermamente che, nel caso in cui sia assolutamente necessario, la persona farebbe bene a seguire nel contempo un percorso psicoterapeutico per lavorare sulle vere cause che sottendono problema. La decisione spetta al paziente: “tolto il dente tolto il dolore?”
L’uso e la prescrizione di psicofarmaci vanno valutati attentamente per gli effetti collaterali, per le possibili “intossicazioni”, per la “dipendenza”, per l’interazione con l’assunzione di altri farmaci e per gli eventuali effetti da sospensione e/o astinenza una volta che tali farmaci non vengono più assunti dall’organismo.

L’argomento “psicofarmaci” è davvero molto complesso. È assolutamente necessario che la persona si rivolga sempre ad uno specialista che abbia le competenze adatte per il trattamento dei disturbi psichici. La figura professionale specializzata nel trattamento psicofarmacologico è lo psichiatra il quale, a differenza del medico di base, ha anche le competenze per la valutazione della personalità del paziente.
Quando l’assunzione farmacologica è necessaria, la persona di riferimento a cui indirizzo i miei pazienti è il Prof. Tonino Cantelmi, medico chirurgo, specializzato in psichiatria e psicoterapia.
Conosco il Prof. Cantelmi da circa 10 anni e nutro una grande stima tanto per la professionalità e la dedizione con cui svolge il suo lavoro tanto per le qualità umane rare e profonde con i quali accoglie la sofferenza e le difficoltà di coloro che a lui si affidano.

 

 


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