Etica della Relazione Terapeutica

di Antonino Urso e Domenicassunta Corsetti

Esistono molti tentativi di definire la psicoterapia; noi siamo d’accordo con Grasso, Lombardo e Pinkus (1988) quando sostengono che tali definizioni presentano alcuni denominatori comuni: la psicoterapia utilizza mezzi psicologici (verbali e non verbali) ed esclude invece strumenti fisici, chirurgici o farmacologici; il fine della psicoterapia è quello di trattare problemi di natura psichica, anche se a volte questi si esprimono con sintomi somatici; la psicoterapia consiste nello stabilire una relazione in piena libertà tra due persone (lo psicoterapeuta e il paziente); la psicoterapia è una relazione professionale: esistono cioè un professionista preparato a tal uopo (lo psicoterapeuta) ed un aspetto contrattuale del rapporto (che non è né occasionale, come tra due conoscenti, né gratuito, come tra amici e parenti). Anche se ai primordi di questa disciplina (v. ad es. lo stesso Freud dei primi anni) si credeva che il successo di una psicoterapia dipendesse dalle interpretazioni dello psicoterapeuta e dagli insight del paziente, è ormai noto che:

  • Interpretazioni diverse conducono spesso allo stesso risultato.
  • L’insight non è sufficiente al fine di ottenere una modifica profonda e permanente della condotta del soggetto e la conseguente maturazione della personalità.

Producono invece una maggiore incidenza sul processo psicoterapico:

  • L’atteggiamento dello psicoterapeuta, fortemente condizionato dalla personalità e dalle esperienze di precedenti interazioni (ivi compresa quella psicoterapica e/o di supervisione) più che dalla formazione teorica e tecnica ricevuta; infatti è proprio l’atteggiamento dello psicoterapeuta che permette al paziente di sperimentare una nuova tipologia di interazione (psicoterapica) che, nel pieno rispetto del suo modo di essere, egli può successivamente generalizzare ad altri tipi di rapporto interpersonale.
  • Il tipo di apprendimento (emotivo, comportamentale e cognitivo) che deriva al paziente dalle nuove prese di coscienza e di abilità acquisite.

Ciò ha portato molti Autori ad affermare che l’efficacia della psicoterapia dipenda più dalla personalità dello psicoterapeuta che dalla psicoterapia utilizzata. Il successo di un trattamento psicoterapico sarebbe legato alla possibilità che viene offerta al paziente di interagire con una persona aperta, interessata, tollerante, coinvolta, comprensiva, rispettosa, onesta. L’istaurarsi di un rapporto empatico all’inizio dell’incontro psicoterapico è risultato infatti essere tra i migliori predittori del successo di una psicoterapia: il terapeuta esperto sa che le sue migliori risposte e i suoi più validi interventi non sono quelli che derivano da un atteggiamento essenzialmente tecnico, ma quelli che risultano dall’integrazione di tutte le sue potenzialità umane messe pienamente, seriamente e genuinamente al servizio del proprio paziente.

L’utilizzo clinico del rapporto terapeutico all’interno di una psicoterapia si può schematizzare in due fasi (Urso, 1991):

  1. La prima, che si ha già nel primo stadio di ogni intervento, si caratterizza come fiducia da parte del paziente nel proprio terapeuta: nella sua voglia di aiutarlo e nella bontà degli strumenti che utilizzerà a tale scopo. La mancanza di questa fiducia impedisce di fatto una psicoterapia ed è quindi una premessa necessaria per passare dalla fase dell’assessment all’intervento vero e proprio.
  2. Nella seconda fase (detta di transfert) il lavoro riguarderà principalmente gli schemi di attaccamento che sono, come ampliamente dimostrato da Harlow, di fondamentale importanza nello sviluppo dell’uomo, in quanto rappresentano un bisogno primario ancor più basilare del cibo. La teoria dell’attaccamento, sviluppata da Bowlby, sostiene l’esistenza di una predisposizione innata, che si sviluppa dal secondo semestre di vita extrauterina, a creare legami di attaccamento con altre persone che si prendono cura di noi. E’ questa predisposizione innata che guida la definizione degli schemi cognitivi ed emotivi dell’attaccamento e del repertorio comportamentale utilizzato per mantenere il contatto con le figure significative. Come dimostrano alcuni studi longitudinali  gli schemi primari di attaccamento (il modo in cui ci amiamo, amiamo gli altri e dagli altri ci sentiamo amati) si sviluppano e si modificano in funzione delle esperienze della vita ma, una volta apprese nell’infanzia, le loro caratteristiche basilari tendono a persistere immutate negli anni; questo non solo perché il comportamento genitoriale (che ne è la causa principale) è stabile nel tempo, ma anche perché gli schemi stessi hanno la tendenza ad autoperpetuarsi; così che il paziente tenderà a riprodurre anche nella relazione con lo psicoterapeuta gli stessi schemi di attaccamento  utilizzati con le figure affettive di riferimento. A proposito della psicoterapia cognitiva, sostengono Cionini e Mattei (1992) che “Nell’ambito specifico del setting, una volta che la relazione paziente-terapeuta sia stata definita all’interno delle categorie accettazione, comprensione, imparzialità, interesse, affidabilità, sicurezza, congruenza emotiva, la possibilità di leggere ed analizzare lo stile di attaccamento messo in atto dal paziente è facilitata sia dalla disponibilità dell’hic et nunc di tutti i dati necessari, che dalle caratteristiche di minor rischio -di situazione protetta- implicite in una relazione che è finalizzata alla crescita di uno dei suoi due membri.”.

In questa fase il lavoro dello psicoterapeuta cognitivo e dello psicoanalista acquisiscono chiaramente gli stessi contorni, in quanto nella relazione terapeutica avremo riprodotti uno per uno gli stadi dell’innamoramento (Urso, 1991):

1.      “Un primo stadio in cui l’amante idealizzerà l’amato (in questo caso il terapeuta) immaginando che egli è una specie di eroe (cavaliere senza macchia e senza paura sempre pronto ad aiutarlo) senza limiti (che assomiglia così tanto allo stadio in cui il bambino idealizza i propri genitori) e che porta il paziente (come il bambino) a sentirsi, viceversa, veramente insignificante al confronto con l’eroe. In questa fase le difficoltà e, quindi l’impegno del paziente e le capacità di aiutarlo del terapeuta, si presentano al momento di accettare (riconoscere con se stessi) e quindi comunicare (al terapista) il proprio sentimento d’amore, dove è si spesso presente anche un desiderio sessuale (come giustamente afferma la psicoanalisi) ma ciò che è preminente è il desiderio di essere coccolato e protetto da tutto ciò che dal mondo esterno può far soffrire (il paziente, come già il bambino col genitore, tende ad usare il terapista alternativamente come dispensatore di rinforzi, come porto sicuro dalle tempeste che si verificano al di là del setting terapeutico, nonché come consigliere a cui ricorrere davanti ad ogni decisione fonte di tensione). In questo stadio è importante che il terapista accetti pienamente (non solo razionalmente ma anche e soprattutto affettivamente) il paziente”. In questo stadio non mancheranno le difficoltà nel percorso psicoterapico; infatti “Un paziente che ha avuto nella sua storia evolutiva un legame con i propri genitori caratterizzato da un basso livello di cure o addirittura di rifiuto, tenderà probabilmente a manifestare, anche nel settino, una difficoltà a fidarsi del terapeuta, a lasciarsi andare completamente in un investimento affettivo che pure, rispetto ad altri indicatori, risulta di fatto strutturato in maniera molto evidente. Un paziente con legami genitoriali caratterizzati da iperprotezione, controllo del comportamento esplorativo, intrusione ecc… può tendere a definire un legame di estrema dipendenza  dal terapeuta o viceversa a porsi in modo conflittuale costruendo come costrittiva qualsiasi sua richiesta o proposta. Comunque, in qualsiasi modo si sia strutturato il rapporto nel setting, è importante che egli riesca ad analizzarlo, a comprendere come le sue caratteristiche possano essere strettamente correlate con quelle dei propri schemi primari di attaccamento e a riconoscere le somiglianze fra le aspettative costruita nei confronti del comportamento dei genitori e quelle attuali rispetto al terapista” (Cionini e Mattei, 1992). Come già sostenuto (Urso, 1991): “… sentirsi accettato (affettivamente) come persona e nello stesso tempo stimato (razionalmente) per le proprie qualità da parte dell’amato permetterà al paziente (che non l’ha già fatto perché non si è sentito così nel rapporto con le figure significative del suo passato affettivo) di imparare a sua volta a stimarsi ed amarsi (stadio così detto narcisistico): L’accettazione dell’altro (il terapista) e di se stesso tipica di questo stadio è però solo di tipo idealistico (riguarda solo i pregi, siamo quindi davanti ad un eroe fantastico e non in presenza di un individuo reale); il paziente rispetta, per il momento, pienamente i propri desideri, ma non fa altrettanto con la realtà ed i suoi limiti”.

2.      Nel secondo stadio (Urso, 1991): “… l’individuo (come già il bambino con i suoi genitori e gli altri suoi eroi) si rende conto che il terapista non è l’eroe che egli immaginava e che ha dei limiti posti dalla realtà e dalla sua individualità, il primo limite del suo eroe con cui il paziente dovrà confrontarsi è dato dal fatto che questi non sarà sempre a sua disposizione (suo uso e consumo) ma avrà altri interessi, impegni, e persone a cui è legato affettivamente … a cui dedicare tempo; così che i desideri del paziente non potranno sempre essere soddisfatti (così come il genitore non può e non vuole soddisfare tutti i desideri del bambino)…Se il terapista è un buon terapista e non ha quindi velleità e desideri propri di rivalsa sul mondo (complesso divino) non reciterà la parte del super eroe e mostrerà i propri limiti, a cominciare da quello di non possedere nessuna bacchetta magica per i mali del paziente. Questo permetterà al paziente di cogliere questi limiti ed odiare (si proprio odiare) oltre che amare il proprio terapista (eroe) che ha deluso le sue aspettative: E’ la fase delle critiche e delle aggressioni (più o meno velate) da parte del paziente al suo terapista (come già il bambino con i suoi genitori). E’ questa una fase molto difficile sia per il paziente (se è difficile esprimere i propri sentimenti positivi lo è ancora di più esprimere quelli negativi, specie se nel passato si è stati duramente puniti per questo o più semplicemente se questi sentimenti non sono stati accettati dall’altro) che per il terapista (che deve essere veramente una persona sana psicologicamente e con un’ottima auto-accettazione affettiva per non viversi male e con sentimenti di rifiuto dell’altro frustrante gli attacchi a cui verrà continuamente sottoposto). … Il paziente può quindi esprimere se stesso (i propri desideri, le proprie qualità ma, soprattutto, i propri limiti) sentendosi, nel momento in cui lo fa, realmente accettato; non ci deve essere cioè in questo momento il rifiuto affettivo (che invece è stato così spesso vissuto dal bambino nel rapporto con le figure significative per lui quando lo hanno scoperto con dei limiti) e nello stesso tempo deve essere presente nel terapista la capacità di fare da specchio al paziente per permettergli di valutare i propri limiti (disarmonie), per poter…accettarli come proprie limitazioni nella capacità di realizzazione dei propri desideri e trovare quindi strade alternative per realizzare gli stessi … Il paziente imparerà così ad amare il terapista (come modello) e, quindi se stesso con i propri pregi ed i propri limiti (come persone reali insomma). Ma in questo stadio farà ancora una distinzione tra realtà terapeutica e realtà esterna. Ci sarà quindi bisogno di generalizzare quanto appreso nel setting terapeutico agli altri rapporti affettivi (passati e presenti) del paziente”.

3.      In questo terzo stadio “Alla luce delle nuove conoscenze acquisite su di sé attraverso la relazione psicoterapeutica, il paziente può essere quindi incoraggiato e facilitato nella ricerca e riconsiderazione dei propri ricordi d’infanzia, nella ricostruzione delle esperienze affettive con le figure di attaccamento e nella revisione dei processi attraverso i quali si è andata strutturando nel tempo la costruzione della sua immagine di sé. In questo lavoro, come afferma Bowlby (1988), la relazione deve rappresentare per il paziente una “base sicura”, una piattaforma, da cui poter partire per esplorare e rivivere le esperienze più dolorose della propria vita ed i sentimenti – talvolta mai confessati anche a se stesso – che le hanno accompagnate.” (Cionini e Mattei, 1992).  Come altrove sostenuto (Urso, 1991): “…bisognerà gradualmente rivivere, con gli occhi nuovi dati dall’esperienza del transfert, i rapporti affettivi significativi del paziente. Bisognerà cioè dare un significato più reale alle tante frustrazioni affettive vissute dal paziente (da bambini si vive come fortemente frustrante anche il semplice interesse mostrato da un genitore per un fratello o un cugino), il quale imparerà a vederle e viverle nella loro giusta dimensione (a non idealizzarle cioè, né generalizzandole, ne drammatizzandole). Qui le difficoltà saranno: per il terapista accettare di non essere più per il paziente né l’unica persona affettivamente significativa, né quella più importante (sarà quindi necessario che egli non abbia desideri di questo tipo da soddisfare, che non si senta cioè insoddisfatto affettivamente) e, per il paziente, il coraggio di uscire dal porto sicuro del setting terapeutico per affrontare le incognite del mare aperto (la vita fuori).”.

BIBLIOGRAFIA

  • Cionini L. e Mattei D.M. “Relazione terapeutica e cambiamento in psicoterapia cognitiva”, Terapia del Comportamento, 1992, 35/36, Bulzoni, Roma, 55-64.
  • Grasso M., Lombardo G.P. e Pinkus L. Psicologia clinica, La Nuova Italia Scientifica, 1988.
  • Urso A. “La psicoterapia cognitivo-comportamentale oggi”, Terapia del Comportamento, 1991, 32, Bulzoni, Roma, 7-36.